IL SALE DELLA TERRA - di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado
di
Dino Dringoli
Giovedì scorso ho visto la prima del film di Wim Wenders
Il sale della terra.
L’ho visto in una condizione perfetta, e cioè in compagnia di cari amici amanti della fotografia, e in una sala pressochè deserta (nove persone in tutto). Davanti a noi null’altro, se non cinema.
Sapevo bene cosa mi aspettava: conosco il regista Wim Wenders del quale ho apprezzato
Paris Texas, Il cielo sopra Berlino, Lo stato delle cose ed il recente
Palermo shooting, la sua sensibilità musicale e fotografica ma soprattutto, da appassionato, conosco il grande fotografo brasiliano Sebastião Salgado e i suoi reportage forti, crudi, cassanti, che non lasciano spazio a repliche.
Per me, così come per altri amici con i quali condivido la passione per la fotografia, Salgado è il fotografo che ha testimoniato in straordinarie immagini l’orrore, la sofferenza, la violenza dell’uomo, il fotografo che più di ogni altro ha saputo trasmettermi con i suoi scatti un senso di sbalordimento, di estasi e di pietas fuse in un indefinito sapore agrodolce.
Forse solo Horst Faas, grandissimo e poco noto fotoreporter tedesco, mi ha fatto provare, talvolta, sensazioni analoghe.
I soggetti fotografici di Salgado sono così esplosivi, così carichi di violento stupore, di cruda verità, che non sono mai riuscito a commentare le sue foto sotto il profilo tecnico.
Sono immagini di spaventosa bellezza che lasciano senza parole, e la tecnica fotografica sfuma in qualcosa di evanescente, di secondario, di superfluo; l’occhio dell’osservatore è concentato solo sul soggetto che, nella sua drammaticità, crudezza e spesso orrore, attrae come una calamita e rende incapaci di qualsiasi commento.
Immagini che escludono la parola e obbligano solo ad una silenziosa riflessione.
Avevo visitato l’anno scorso a Roma la prima mostra italiana del suo recente lavoro fotografico,
Genesi, ottimamente allestita all’Ara Pacis. Non avevo chiaro cosa Salgado avesse realizzato, ed entrai alla mostra con insolita sufficienza, impreparato, e con grande sorpresa ne rimasi letteralmente abbagliato.
Visitando
Genesi compresi subito di trovarmi davanti a qualcosa di diverso rispetto al Salgado che conoscevo. Le sue foto lasciavano trasparire altro, come un cambio di passo, non più veloce, ma più lento, più intimo, più pensato.
Più mi addentravo nella mostra e più mi rendevo conto che stavo osservado immagini che andavano oltre la mera fotografia.
Non stavo semplicemente contemplando l’opera in mostra di un grande fotografo, ma il pensiero profondo e maturo di un uomo fortemente determinato a comunicare qualcosa di intenso e di diverso attraverso le sue strabilianti immagini.
Acquistai il ponderoso catalogo (
Genesi, Taschen ed., 517 pp.) e lo lessi d’un fiato, avidamente.
Lo rilessi per giorni, e ancora lo sfogliavo e lo rileggevo osservando una volta di più con attenzione le centinaia di immagini, ogni volta comprendendo più a fondo, fino alla completa assimilazione di un lavoro fotografico,
Genesi, di straordinaria portata intellettuale.
Entrando al cinema per vedere
Il sale della terra, sapevo tutto questo.
Quello che invece non sapevo, è che avrei provato una fortissima emozione, cosa che mi capita raramente guardando un film, più spesso - viceversa - davanti ad un dipinto o ad una scultura.
Si, ammetto che mi sono emozionato, così come del resto mi hanno sempre emozionato le fotografie di Salgado, ma … qui si è trattato di qualcosa di diverso, di molto diverso, fin dalle primissime parole introduttive di Wenders che riassumono l’essenza del film: “
Non immaginavo che stavo per scoprire molto più di un semplice fotografo. Una cosa l’avevo capita di questo fotografo: gli importava davvero degli esseri umani, e dopotutto gli esseri umani sono il sale della terra”.
Wenders è uno straordinario e geniale regista, ed ha realizzato un film che, proprio come un soggetto nel mirino di una macchina fotografica, può essere osservato e inquadrato da diversi punti di vista, ed ha quindi più di una chiave interpretativa.
E’ certamente un film biografico.
Certo, è la biografia di un grande fotografo brasiliano, Sebastião Salgado.
Il film ne ripercorre con precisione tutte le vicende personali e professionali, il profondo e indissolubile rapporto con la moglie Lèlia, con la famiglia, con i figli, con la sua terra, le sue principali tappe di fotografo, la decisione di lasciare un posto sicuro da economista per dedicarsi completamente alla fotografia.
Alcune immagini e filmati di repertorio mostrano un giovane Salgado con una lunga capigliatura bionda ed una barba incolta, altre lo colgono giovane attivista politico in un Brasile sotto la dittatura militare dei gorilas e del generale Emilio Médici, ed altre ancora si soffermano sulla nascita del primo figlio, il Juliano Ribeiro coregista del film, e del secondo, purtroppo affetto dalla sindrome di Down.
Ho trovato molto toccanti le interviste al padre di Salgado, un uomo ormai vecchio e in bilico esistenziale fra la soddisfazione di essere riuscito a far studiare tutti i suoi numerosi figli ed il rimpianto di non essere stato in grado di mantenere produttiva la fazenda di famiglia, resa arida dalle continue deforestazioni.
Traspare chiarissimo, nella vicenda personale e professionale di Salgado, il ruolo fondamentale della moglie Lèlia, una donna colta, intelligente, forte ed incredibilmente determinata, capace di infondere al marito coraggio e fiducia, di condividere con lui un entusiasmante progetto di vita e al contempo di sopportarne le lunghe assenze.
Lèlia, architetto, è oggi la sua editor e deus ex machina, è la mente dei suoi libri ed è la presidente della fondazione Amazonia Images che cura e produce i libri fotografici di Salgado.
È lei, naturalmente, che ha avuto la geniale quanto folle idea, nel 2004, di ripiantare la foresta nella fazenda del suocero a Rio Dece, restituendola a nuova vita.
Salgado, oltre che dalle sue fotografie, è raccontato da Wenders, dalla moglie Lèlia, dall’anziano padre, e la figura del fotografo e dell’uomo si forma lentamente, sempre più nitida, con lo scorrere del film attraverso un coro di voci, come in una sinfonia.
La presenza del figlio Juliano accanto a Wenders, infine, rafforza l’interpretazione in chiave biografica del film. E’ una presenza importante, ma discreta, quasi sullo sfondo; Juliano racconta il padre da figlio, da coregista e da ammiratore al tempo stesso, offrendo allo spettatore un personalissimo e singolare punto di vista.
Ma al tempo stesso Salgado si racconta, e per questo
Il sale della terra è anche un film autobiografico.
Parla di sè, della sua storia e soprattutto delle sue emozioni, dei suoi sentimenti, rende partecipe lo spettatore delle sue riflessioni. Commenta le proprie immagini, ora con entusiasmo ora con disgusto, più spesso con matura saggezza e con amara rassegnazione.
Raccontandosi, Salgado si trasforma lentamente in attore protagonista di sè stesso, e attraverso le sue personali esperienze e riflessioni, attraverso i commenti, le sottolineature ed i pensieri, esce fuori l’uomo, indistinguibile dal fotografo e dal professionista.
Ricordo che tempo fa mi capitò di vedere una lunga intervista a Salgado, il quale spiegava al suo interlocutore che quando prese la decisione di lasciare tutto e di diventare un fotografo, dedicò tutto sè stesso alla fotografia: “
Io e la fotografia eravamo una cosa sola”.
E’ un documentario.
Attraverso i viaggi fotografici di Salgado si raggiungono gli angoli più remoti e selvaggi del mondo. Dall’Antartide al Pacifico, dal profondo Sudamerica all’Africa, dall’Europa al Medio Oriente.
E’ un incredibile documentario del nostro tempo di cui Salgado è testimone e narratore: la guerra in Iraq, in Somalia, il dramma ruandese, l’esodo di centinaia di migliaia di persone in fuga dal terrore, situazioni di emarginazione e di disperazione come le migliaia e migliaia di minatori d’oro nella Sierra Pelada in Brasile stipati come formiche in una immensa voragine di fango in cerca di una speranza ….
I reportage di Salgado hanno prodotto un’immensa enciclopedia visiva della seconda metà del ‘900 e, sempre, le sue straordinarie fotografie restituiscono all’osservatore orrori e bellezze estreme, condizionandone la comprensione del mondo.
E’ un film dai fortissimi contrasti, come le fotografie di Salgado, dove il bello e il brutto, il sublime e l’orrendo, il meraviglioso e l’infimo si alternano con impressionante regolarità.
Johannes Itten, il grande teorico bauhausiano del colore e dei contrasti, sarebbe andato in estasi.
È anche un film sulla fotografia.
Certamente, si parla anche di fotografia, ma a latere, quasi en passant e con frasi sobrie e brevi messe qua e là, quasi con tecnica aforistica, e che tuttavia racchiudono in sè stesse importanti principi che, credo, solo un fotografo può comprendere nel loro significato più pieno e profondo: Phôs (luce)- graphè (grafia), scrivere, dipingere con la luce: “
Un fotografo è letteralmente qualcuno che disegna con la luce. Un uomo che descrive e ridisegna il mondo con luci ed ombre”.
Davanti ad un esemplare di orso bianco che si era avvicinato alla sua postazione Salgado, guardando intensamente il figlio e Wenders che lo avevano accompagnato in una missione in Antartide, afferma con disappunto: “
qui non c’è azione, non c’è movimento, non c’è emozione: posso solo ottenere l’immagine di un orso, ma non una sua fotografia, e cioè quello che egli realmente è ”.
Scorrono i ritratti, bellissimi, intensi, di una antica popolazione boliviana: “
La forza di un ritratto è che in quella frazione di secondo si coglie un po’ della vita della persona che si fotografa. Gli occhi raccontano molto, così come l’espressione del viso. Quando fai un ritratto non sei solo tu che fai la foto: la persona ti offre la foto”.
Nel dipanarsi del film Salgado ci offre un condensato di principi fotografici ma, di più, ci descrive la mente e quindi l’occhio del fotografo … ci racconta cosa c’è dietro una fotografia: occhio, cuore, intuito, estetica, tecnica, armonia, ostinazione, coraggio, fortuna, ma soprattutto pensiero, mente.
Si fotografa ciò che si pensa …. “
Se mettessimo dieci fotografi in cima a questa montagna, otterremmo dieci fotografie diverse, perchè ognuno ha il suo modo di pensare, ognuno ha la sua preparazione e cultura …”
Le immagini di una Lèlia assorta nel lavoro di selezione delle centinaia di foto di Salgado, e che sempre più concentrata le appende con una calamita su di una grande parete bianca, spostandole di continuo come in un immenso domino che sembra non risolversi mai, è una straordinaria finestra aperta su come si realizza un libro fotografico e su come si costruisce, armonicamente, una storia per immagini.
E’ un film di denuncia sociale e politica.
Salgado non nasconde i suoi trascorsi di impegno politico sotto la dittatura brasiliana e non mancano le sue riflessioni sulle ingiustizie del mondo, sulla corruzione e la disonestà dei politici.
Scorrono lente le immagini tratte da Exodus e da Migrations. Centinaia di migliaia di uomini, donne, bambini e vecchi che scappano dal Ruanda, dalla ex Jugoslavia, dall’Etiopia e dalla Somalia vivendo una serie infinita di orrori e violenze. Immagini forti, durissime, atroci, che Salgado commenta con un’amara didascalia : “
Siamo animali moto feroci. Siamo animali terribili noi umani, siamo di una violenza estrema. La nostra è una storia di guerre, è una storia senza fine, è una storia di repressioni. E’ una storia folle”.
È un film, infine, nel quale ho anche colto una vicenda narrativa, forse minore, che mi è parso sostanziarsi nel tema del riavvicinamento di un figlio al proprio genitore.
Juliano afferma ripetutamente che da piccolo avrebbe voluto viaggiare con suo padre, e quando da adulto, finalmente, può farlo, lo fa soprattutto per capire chi è suo padre.
La tensione si risolve nel film stesso dove Juliano non solo appare accanto al padre mentre fotografa leoni marini ed orsi bianchi ma, soprattutto, appare come co-regista accanto a Wenders, un’esperienza non solo professionale, ma esistenziale.
Il sale della terra è anche la storia di un figlio alla ricerca ed alla scoperta del padre.
Wenders, come in un cadeiloscopio, ha quindi realizzato un film poliedrico, a più voci, riuscendo ad inserire la complessa, disordinata e frenetica vita personale e professionale di Salgado in un contenitore e a riestrarla collegandola ad uno filo conduttore di grande effetto: il viaggio, che dal mio personale punto di vista costituisce la principale chiave di lettura del film.
Il sale della terra è un film di viaggi, fotografici ed immaginari.
Viaggi ai confini del mondo per documentare e testimoniare la drammaticità della nostra epoca che Salgado coglie con il suo obiettivo restituendoci immagini che, nella loro crudezza, danno la misura della condizione dell’uomo sul pianeta.
Ma Salgado è già un viaggiatore ben prima di diventare un fotografo. Lascia il suo paese natale, Aimores, nello stato di Minas Gerais, per continuare gli studi a Vittoria, nello stato di Espirito Santo; va poi a Parigi ed a Londra dove trova il suo primo impego come analista economico. Il vecchio padre sottolinea questa caratteristica del figlio, lamentandosene: “
Non sapevi mai dov’era, ora qua, ora là, poi ogni tanto riappariva e ripartiva subito dopo. Ma sono riuscito a farlo laureare lo stesso … “.
Sarà proprio un viaggio di lavoro in Africa, nel 1973, che fece prendere a Salgado la decisione di abbandonare tutto e diventare fotografo.
Wenders, tuttavia, ha usato il tema del viaggio, peraltro ricorrente nei suoi film, utilizzandolo anche e soprattutto come metafora della ricerca di sè stessi.
Il sale della terra, nel suo insieme, è il lungo viaggio nella vita di un grandissimo fotografo, ma soprattutto di un uomo, che alla fine ritrova sè stesso e il suo equilibrio in armonia con la natura ed il bello.
Salgado, dopo aver visto e fotografato orrori in Etiopia, nella ex Jugoslavia, in Iraq, in Tanzania, e soprattutto in Ruanda, giunge alla conclusione di essere morto dentro, di non avere più fiducia nel mondo e negli uomini.
Smette di fotografare e si ammala.
Wenders rappresenta questa morte interiore con dieci lunghissimi secondi di schermata nera, una cesura interminabile che lascia lo spettatore sospeso fra un prima e un dopo.
In una recente intervista Salgado ha spiegato che dopo il Ruanda venne preso da una profonda depressione e cominciò a sentirsi male. Andò da un suo amico medico, il quale, dopo averlo visitato a fondo gli disse: “
Sebastião, tu non hai niente, il tuo corpo è sanissimo. Però hai visto troppi orrori, troppa morte ….. e così sta morendo anche la tua anima. Devi vivere guardando la bellezza che c’è nel mondo”.
Salgado torna quindi in Brasile dove il padre gli aveva lasciato in eredità la fazenda di Rio Dece di quasi 600 ettari, che a causa della deforestazione e dell’erosione era ormai completamente privata degli animali che un tempo la popolavano, e senza vita.
La fazenda e la foresta erano morte, come Sebastião.
Ma Léila ha la straordinaria, geniale e folle idea di provare a far rinascere la foresta ripiantando le stesse specie che vi prosperavano un tempo.
L’idea funziona, e già dopo qualche anno “[…]
con la riforestazione, le intense piogge stagionali, invece di provocare inondazioni, venivano assorbite dal suolo, e col passare del tempo fiumi e ruscelli hanno ricominciato a scorrere per tutto l’anno”.
Ricompaiono pesci ed altre specie animali.
Nella prefazione del catalogo di Genesi Salgado spiega che “
meravigliati di fronte alla capacità della natura di rigenerarsi da sola, abbiamo cominciato a preoccuparci del destino dell’intero pianeta. Abbiamo capito quanto sia assurda l’idea di separare uomo e natura […]
Sappiamo come controllare e sottomettere la natura, ma molto spesso dimentichiamo che è da lei che dipende la nostra sopravvivenza”.
Salgado piano piano rinasce. Mentre scorrono le immagini della fazenda restituita a nuova vita Wenders commenta: “
La terra guarì la disperazione di Sebastião. La gioia di vedere crescere di nuovo gli alberi e rinascere le fonti d’acqua, tutto questo fece sì che Sebastião tornasse a sentirsi un fotografo”.
Nasce il progetto
Genesi e Salgado torna a viaggiare alla ricerca di una natura incontaminata e di un mondo ancora intatto: “
e l’ho trovata in spazi sconfinati caratterizzati da un’eccezionale biodiversità che, cosa stupefacente, coprono quasi la metà della superficie terrestre […].
La scoperta di questo mondo incontaminato è stata l’esperienza più gratificante della mia vita”.
Inizia una serie di 32 viaggi in otto anni, nei più remoti e sperduti angoli della terra, il primo dei quali alle Galapagos: “
Volevo capire quello che Darwin aveva capito. Le stesse specie in ecosistemi molto diversi si sono evolute in modi molto diversi. Osservando la struttura della mano di quell’iguana capisco che anche lei è mia parente, che siamo nati dalla stessa cellula”.
Il viaggio si trasforma in un’esperienza quasi iniziatica, rigeneratrice.
Come Finn, il protagonista (e anch’egli fotografo) di Palermo shooting, Salgado rinasce recuperando un nuovo sguardo col quale riconsiderare ed affrontare la propria vita di uomo e di fotografo.
Il risultato è
Genesi, che non è solo un inno alla terra, ma un inno alla vita, alla gioia, alla natura e soprattutto alla bellezza; per dirla con Salgado, “
un’ode visiva alla bellezza ed alla fragilità della terra”.
Ma il risultato della “resurrezione” di Salgado è anche questo meraviglioso film,
Il sale della terra, nel quale Wenders, usando la metafora del viaggio e le straripanti immagini di Salgado stesso, ha saputo raccontare il percorso di vita personale e professionale di uno dei più grandi fotografi viventi.
Un percorso di vita sospeso fra il bene e il male, fra il sublime e l’orrendo che Wenders riesce a mantenere in una costante tensione e che si risolve, quasi metafisicamente, con la forza della bellezza e della natura.
Un film straordinario, intenso, intelligente, mai banale, che lascia lo spettatore con gli occhi e la mente pieni.
E probabilmente una delle più belle cose che mai abbia avuto occasione di vedere al cinema.