di
Dino Dringoli
Marco Tito Fortunati
L’occasione è stata la proiezione al club Lumiere di Pisa del film Fur (2006) di Steven Shainberg, una rievocazione immaginaria della grande fotografa newyorkese Diane Arbus (1923-1971).
L’organizzatore mi aveva proposto di mettere insieme alcuni scatti che, in qualche modo, richiamassero i temi della produzione fotografica della Arbus, e da esporre nel locale a corredo della serata.
Ci ho provato insieme all’amico Tito Fortunati.
La cifra artistica di Diane Arbus è stata la “diversità”, che questa donna piccola, minuta, ha saputo cogliere con un occhio fotografico di straordinaria sensibilità ed intensità.
Una tematica non banale, difficile, ma che la Arbus ha colto e raccontato con scatti densi di contenuto estetico e narrativo, spingendo il suo occhio fino a latitudini fotografiche estreme: prostitute, nani, disabili, accattoni, ermafroditi, uomini e donne affetti da turbe mentali, e molto altro.
La stampa critica dell’epoca definì Diane Arbus “la fotografa dei mostri”, non comprendendo la inedita dimensione sociale della sua visione artistica e fotografica nè la sua fragile sensibilità interiore. Una fragilità che la portò al suicidio non ancora cinquantenne.
Replicare o cercare di imitare l’intensa produzione fotografica di Diane Arbus, seppure nei modesti confini di una piccola mostra a margine della proiezione di un bel film rievocativo, è naturalmente un non senso.
Si può solo alludere ai temi del suo interesse, interpretandoli al meglio con l’occhio talvolta insicuro del fotoamatore appassionato.
Con l’amico Tito Fortunati, ottimo e acuto fotografo di street, abbiamo quindi preso spunto dalle tematiche di indagine fotografica della Arbus, individuando nella marginalità, nell’esclusione e nel disagio, alcuni corollari della diversità, spesso dai contorni - sociali e fotografici - molto crudi.
L’essere “diverso”infatti, per razza, cultura, religione, condizione economica o addirittura per scelta, comporta spesso, e per i motivi più disparati, una condizione di marginalità fino all’esclusione, e di conseguente disagio.
Disagio, occorre dire, anche per il fotografo, sospeso davanti all’immagine fra più di uno scrupolo di pudore e l’istinto naturale ad osservare, cioè a vedere per trattenere, e quindi a scattare.
Come in molte altre cose della vita, peraltro, prevale l’istinto, e il fotografo di street scatta, cercando di cogliere l’essenza profonda di situazioni, persone, ambienti e contesti, spesso prescindendo da quelle molte considerazioni di altro ordine che un’immagine forte può suggerire.
Qualcuno ha scritto che la pittura è un arte che viene da dentro e va verso l’esterno, mentre la fotografia è un arte che viene dall’esterno e si dirige verso linterno. E’ una mezza verità, ma che certamente coglie una delle caratteristiche del fotografo: l’impossibilità di girarsi dall’altra parte di fronte ad una immagine che lo investe.
La stessa Arbus disse che “ci sono delle cose che nessuno riesce a vedere prima che vengano fotografate”, evidenziando non solo un aspetto meramente fotografico, ma quella diffusa tendenza a voltare lo sguardo altrove.
Da questa breve indagine e con questi presupposti, è scaturita una antologia di circa trenta immagini, tratta da un archivio certamente più vasto, che se non altro ha il merito di offrire all’osservatore un punto di vista sulla “diversità” nella nostra società moderna e globalizzata.
Quanto ai soggetti, si tratta di tipologie di persone accomunate da un evidente marginalità sociale e dalla strada come ambiente principale di vita o di sopravvivenza.
Quindi clochard, rom, prostitute, hobo, homeless, questuanti, disabili, anziani ed extracomunitari. E chissà quanto altro ancora avrebbe potuto produrre e mostrare un’indagine più approfondita.
Quanto ai luoghi, la selezione proposta è delocalizzata, itinerante, addirittura internazionale.
L’immagine della marginalità si distingue per intensità, ma non per i luoghi che possono essere molto diversi fra loro, molto vicini o molto lontani.
E quindi sono immagini catturate a Roma, a Londra, a Parigi, a Genova, Firenze.
Si sarebbero potute scattare foto a New York, a Madrid o a Reggio Calabria e il tipo di immagine sarebbe stato assolutamente identico, perchè il disagio sociale purtroppo non ha luogo.
Naturalmente molte immagini sono state riprese anche nella nostra città di Pisa. Una piccola città di provincia, da questo punto di vista, non differisce affatto dalle grandi realtà metropolitane italiane ed estere.
E’ quello che aveva compreso la stessa Arbus: la diversità, molto spesso, è appena fuori la porta di casa.